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Data di Pubblicazione
28 Settembre 2019

PROLOGO
Welcome to New York
La prima cosa che noto, mettendo piede nel lungo corridoio del dormitorio, è che sono l’unica a essere accompagnata dai propri genitori. La seconda? Il Brittany Hall è molto diverso da come me l’ero immaginato guardandolo attraverso il sito dell’università. Con le porte così attaccate le une con le altre, le camere sembrano ammassate; l’ascensore è piccolo e il pavimento scuro, in contrasto con le pareti avorio, mi dà un senso di claustrofobia. C’è un via vai frenetico, ragazzi che si salutano al rientro dalle vacanze estive, altri che camminano in punta di piedi con i loro scatoloni, alla disperata ricerca della propria stanza. Sorrido osservando l’espressione imbarazzata di papà mentre due ragazze della mia età gli passano davanti in accappatoio. Fa una smorfia e poi dice qualcosa all’orecchio di mia madre, che alza gli occhi al cielo e lo liquida sventolandogli la mano davanti agli occhi. Un ragazzo grosso quanto un armadio ci sorpassa e la squadra dalla testa ai piedi, facendo spazientire ancora di più mio padre.
«Sono i capelli lunghi», si giustifica lei. «Mi fanno sembrare più giovane».
«Sono i jeans stretti sul sedere», ribatte mio padre. Le prende la mano e la trascina nella direzione opposta a quella dell’energumeno appena passato. «Per fortuna che almeno tu ti vesti in modo normale», afferma, indicando i miei pantaloni larghi della tuta.
«Siete sicuri che starete bene, voi due, a casa da soli, senza di me?». Strascico il trolley in direzione della camera numero trecentoventitré e sento mio padre dire a mia madre, a bassa voce ma con il chiaro intento di farsi sentire da me: «Glielo dici tu a Vipera che stiamo sognando questo giorno da
quando ha iniziato a parlare, a undici mesi?».
Mia madre ridacchia e lo zittisce, poi aggiunge, prendendomi in giro: «No, che magari per ripicca ci ripensa e torna in Florida con noi».
«Ah ah ah… simpatici! La verità è che morirete di noia senza di me». Mi fermo davanti alla stanza che mi hanno assegnato e rimango a osservarla, immobile.
«Quando non ne potremo più salteremo sul primo aereo e correremo da te. New York è una città magica e io e tuo padre ci torniamo sempre volentieri. Vero, Ben?».
«Non così volentieri». Sbuffa guardandola di traverso. «Tua madre mi ha mollato per un altro in questa città».
«Non è vero! Non ti ho lasciato, non stavamo insieme, era lui il mio ragazzo».
«Un avvocato…», continua mio padre, fingendo disappunto e ignorando la protesta di mamma. «Capisci ora perché questa storia che vuoi frequentare la scuola di Legge non mi va giù?».
«Stai tranquillo, papà, io farò il giudice…». Vorrei aggiungere altro, ma non ricordo cosa.
Due occhi blu color zaffiro incrociano i miei, una frazione di secondo soltanto, ma tanto basta per farmi trattenere il respiro.
Il ragazzo, almeno un paio di anni più grande di me, accenna un sorriso sbieco, poi ci supera e si ferma davanti alla porta della stanza accanto alla mia. Indossa dei jeans strappati e una t-shirt nera che lo fascia alla perfezione. Ma il particolare che mi balza subito agli occhi – oltre al suo petto ampio e a
un viso spigoloso e privo di imperfezioni – è il tatuaggio colorato che sbuca dalla manica corta e gli ricopre tutto il braccio sinistro, fino al polso. Rimango a fissarlo senza riuscire a smettere, al punto che papà deve schioccarmi le dita davanti al viso per rompere l’incantesimo.
«Eva?».
«Eh? Cosa…?». Sto ancora guardando il ragazzo e mi volto verso i miei genitori solo quando lui si
richiude la porta della camera alle spalle.
«Quello è esattamente il genere di ragazzo dal quale devi stare alla larga!», sentenzia mio padre, categorico. Mi sfila la chiave elettronica della stanza dalle mani e mi fa scansare.
«Oh, papà, come sei antico! Io ho chiuso con i ragazzi, e quello, tra l’altro, non è proprio il mio tipo». Mamma se la ride e nasconde le labbra dietro il dorso della mano. «Che c’è? Cosa ho detto?», le domando con un tono brusco che con lei non mi permetto mai di usare.
«Oh, niente… Proprio niente», dice prima che possa scusarmi.
«Eva, dico sul serio, non farmi pentire di averti lasciato venire a studiare in un altro Stato. Non dare confidenza a certi soggetti».
«Mamma mia! Non si può più nemmeno guardare? Ero solo incuriosita dal suo tatuaggio», mento spudoratamente. Papà scuote la testa ed entra nella stanza, mentre mamma si mordicchia il labbro inferiore, come se fosse a conoscenza di non so quale segreto.
Non stavo scherzando, non voglio saperne di ragazzi per un bel po’. Ho messo un punto definitivo alla storia con J.J. poco prima di partire per il college e ho bisogno di tempo e spazio. Stare lontani, in questi anni, è stata troppo dura, nonostante le promesse e la buona volontà di entrambi non siamo riusciti a far funzionare le cose.
Così l’ho lasciato andare…
Una volta messo piede nella camera mi dimentico completamente del mio vicino tatuato e bello da perdere la testa e mi concentro su quello che vedo. L’ambiente è piccolo ma entra tantissima luce.
Dato che la mia compagna di stanza – che non conosco – non è ancora arrivata, scelgo il letto singolo di destra e le lascio quello opposto.
«Non ho idea di dove metterai tutta la roba che hai portato», dice mia madre, osservando scettica la scrivania accanto al mio nuovo letto e dentro il piccolo guardaroba. Non avevo dubbi che quella sarebbe stata la prima cosa che avrebbe notato.
«Non ho portato poi così tante cose». Sposto lo sguardo sulle due valigie e il trolley e… sì, forse ho esagerato. «Okay! È ora che vi leviate dai piedi. La mia compagna di stanza arriverà da un momento all’altro e proprio non ho voglia di farmi trovare qui con i miei genitori. Non so se ve ne siete accorti, ma ormai sono al college e sono l’unica che è arrivata accompagnata».
«Hai insistito tu!», ribatte mio padre, scontroso. La mamma gli dà una gomitata e lui sbuffa. «Scusate, sono nervoso. Non mi piace saperti così lontana e ancora non capisco perché hai scelto New York quando sei stata accettata anche alla Boston University, dove ci sono i tuoi cugini, Logan ed Ethan».
«Mhmm, vediamo… Ah, sì… perché ci sono Logan ed Ethan!». È così difficile da capire che ho bisogno di cambiare aria? Di cavarmela da sola? Per tutta la vita sono stata “la piccola Carter”, “la cuginetta Carter”, “la figlia di Benjamin Carter”, e negli ultimi due anni di scuola superiore addirittura “l’intoccabile Carter”. Non sono mai stata solo Eva, una sconosciuta qualunque che può farcela con le sue forze senza dover essere costantemente protetta o controllata.
Riesco a cacciarli via dopo venti minuti, fra le proteste di papà e le raccomandazioni di mamma, e gli ricordo che li aspetterò davanti all’ingresso principale del campus alle otto in punto per andare a cena fuori.
«Il bellimbusto tatuato non mi piace per niente!», ribadisce papà a bassa voce appena prima di richiudersi la porta alle spalle e io mi concedo una risatina sommessa.
Respiro a pieni polmoni. Far finta di essere pronta a lasciarli andare è una missione estenuante. Loro staranno benone senza di me. Io, al contrario, non ne sono così sicura.
Mi affaccio alla finestra e mi gusto il via vai di studenti che si apprestano a entrare al dormitorio, pieni di pacchi marroni e di valigie. Ognuno ha un’espressione diversa sul viso: euforia, agitazione, spavento, indifferenza.
E poi ci sono io, che trasudo aspettativa da tutti i pori.
Sono a New York City.
Il mio grande sogno.
La mia compagna di stanza fa il suo ingresso teatrale poco dopo e, passati due minuti in compagnia l’una dell’altra, diventa piuttosto chiaro a entrambe che non ci sopportiamo. Lei svuota le sue valigie e dissemina vestiti striminziti e tacchi a spillo per tutta la stanza. Il suo beauty case, che ha poggiato sulla mia scrivania senza chiedermi il permesso, è grande quanto la mia borsa per il nuoto e il suo accento forzato dell’Ovest mi fa storcere il naso. Non mi stupirei se fosse una finta californiana ma in realtà arrivasse da qualche fattoria sperduta nel Wyoming e incontrasse per la prima volta la civiltà. Di certo si spiegherebbe il suo pessimo gusto in fatto di vestiti e abbinamenti. A malapena mi rivolge la parola, si lamenta del fatto che ho scelto il lato destro della stanza e, quando risponde al telefono, le sento dire qualcosa che somiglia tanto a “una snob del Sud”, rivolto a me, facendomi attorcigliare le budella per il fastidio.
Afferro un piccolo asciugamano, lo spazzolino da denti e il dentifricio dal beauty case ed esco dalla stanza prima di dire o fare qualcosa di cui mi pentirei senza dubbio.
Mio cugino Logan mi suggerirebbe di mandarla a quel paese e chiedere un cambio stanza. Per fortuna non ascolto mai quello che dice, così faccio un bel respiro profondo e vado in perlustrazione.
Quando sull’opuscolo del dormitorio ho letto “bagni in comune” mi aspettavo qualcosa di diverso, di più triste, un bagno sterile in stile caserma militare. Invece, le toilette del Brittany Hall sono spaziose ed eleganti. I lavandini – una quindicina, disposti in modo ordinato su tre pareti – mi ricordano, per lo stile e i colori, il mio bagno di casa: toni caldi e forme sinuose. Mentre questa parte è promiscua, le docce e i WC sono divisi. Due corridoi si snodano dalla stanza in cui mi trovo e portano nei rispettivi locali.
Mi fermo davanti a uno dei lavabi, mi osservo allo specchio e mi sistemo la coda di cavallo. Sono pallida e stanca. Applico con cura il dentifricio sul mio spazzolino verde e mi sostengo con una mano alla ceramica fredda. Alzo appena la testa e lo sguardo che incrocio nello specchio mi stende in due secondi: è Mr-Quello-È-Esattamente-Il-Genere-Di-Ragazzo-Dal-Quale-Devi-Stare-Alla-Larga-PienoDi-Tatuaggi.
Per poco non mi va di traverso la schiuma alla menta. Lui continua a guardarmi e io, ipnotizzata neanche fosse il primo bel ragazzo che vedo nella mia vita, non riesco a staccargli gli occhi di dosso.
Si posiziona accanto a me, apre il rubinetto, estrae da non so dove uno spazzolino e mi scruta dallo specchio.
«Mi presti un po’ di dentifricio?», mi domanda con un tono lascivo che scivola deciso dalle sue labbra carnose e un accento leggero che non riconosco subito. Non rispondo, a quanto pare non ne sono capace, ma allungo la mano e gli passo il tubetto.
Sono imbambolata e stupida, non c’è altra spiegazione.
A me i ragazzi con i capelli così corti, poi, neanche piacciono! E tutti quei tatuaggi a imbrattargli la pelle… per carità!
Deglutisco e mi ricordo che ho un pezzo di plastica infilato in bocca e che non mi sto più spazzolando da una ventina di secondi abbondante. Lo osservo con la coda dell’occhio e fisso con morbosità il suo tattoo colorato; è così stravagante, ingombrante, addirittura, ma allo stesso tempo sexy da morire. È un insieme di figure messe a caso: fiori tropicali dai colori sgargianti, visi di donne, un paio di teschi, un tempio giapponese ricoperto da fiori di Sakura, dei simboli che non conosco.
Intravedo anche la bandiera del Canada e dei numeri, ma non ne sono sicura, perché lo sconosciuto continua a scrutarmi dallo specchio e io sono costretta ad abbassare lo sguardo, imbarazzata.
«Ti piacciono i tatuaggi?», mi domanda, ancora con quella voce calda, ancora con quell’intonazione lussuriosa.
«Non proprio», confesso e sputo nel lavandino – in modo poco elegante – la schiuma mista a saliva.
«Primo anno?».
«Sì. Voglio entrare alla scuola di Legge».
«Anch’io». Mi rivolge una smorfia infastidita e si infila di nuovo lo spazzolino fra le labbra.
«Cosa? Primo anno o Legge?».
«Legge, purtroppo».
Sto per dire una cosa scontata, tipo “se non ti piace, perché non cambi?”, poi mi ricordo che il resto del mondo non vede la vita come facciamo io e mio padre, o bianco o nero, così mi zittisco. Finiamo di lavarci in silenzio, poi mi asciugo la bocca e mi afferro il labbro inferiore con i denti. Non ho più niente da fare qui dentro e nemmeno una scusa decente per rimanere. «Ci vediamo in facoltà, allora», dico alla fine.
«O qui nei bagni», mi ricorda lui, con tono divertito. Non ci sono doppi sensi nelle sue parole.
Il suo aspetto eccentrico, tutt’a un tratto, mi sembra meno invadente o intimidatorio. Si guarda distrattamente allo specchio e si pulisce la bocca con delle salviette usa e getta, pronto ad andarsene.
«Giusto», confermo. Poi allungo la mano, presa da un coraggio improvviso e senza pensare troppo alle conseguenze. «Piacere, Eva».
«Hai anche un cognome, Eva?», mi domanda. La sua stretta è decisa e le sue mani sono calde e morbide.
«Carter. Eva Carter».
«Piacere, Eva Carter, io sono Theo». Mi sorride ancora, i suoi occhi, di un blu scintillante, ridono insieme a lui. È di una bellezza stupefacente. «A presto, allora».
Si sta per allontanare quando la mia bocca si apre ancora e la domanda mi esce incontrollata. «E tu? Ce l’hai un cognome?».
Fa un paio di passi all’indietro, dirigendosi verso la porta ma senza perdere il contatto visivo con me. «Steinfield. Theo Steinfield».

CAPITOLO 1
Eva
Theo non mi ha riconosciuta.
Lo osservo con la coda dell’occhio mentre infila, con estrema scrupolosità, alcuni dei suoi vestiti in una delle lavatrici dell’anteguerra nella piccola lavanderia al piano terra del Brittany Hall. Eighteen dei Pale Waves risuona appena dalle casse posizionate in alto, su due dei quattro angoli della stanza.
Ci siamo solo noi due. Quando è entrato mi ha rivolto un cenno di saluto distratto con il mento e poi si è concentrato sul suo bucato, ignorandomi del tutto. Da quando sono arrivata a New York City, tre settimane fa, non faccio altro che ritrovarmelo davanti e lui… Lui non mi vede proprio.
È come se il suo sguardo mi trapassasse ogni singola volta. Sono fuori dal suo radar. Lontana anni luce dai suoi pensieri.
La lavatrice numero quattro si arresta di colpo. Mi alzo dall’unica sedia presente nella saletta e, spalle dritte e petto in fuori, mi avvicino al punto in cui si trova lui, che sta ancora dividendo i suoi panni.
Al secondo tentativo riesco ad aprire l’oblò e mi si ferma il cuore.
«Merda!», sibilo.
Mi basta un’occhiata per rendermi conto di aver rovinato tre quarti del mio guardaroba. Infilo una mano nel cestello e ne estraggo una camicetta bianca. Ha una vistosa macchia bluastra sulla manica destra e una rossiccia, meno evidente ma altrettanto fastidiosa, sul davanti. Proprio all’altezza del seno destro.
Trattengo il fiato. Ad ogni capo che recupero la situazione peggiora: i bianchi sono diventati colorati e i colorati sono diventati ancora più colorati.
Merdaaa!
«Hai combinato un bel disastro, eh?». La voce di Theo mi fa sussultare sul posto.
Mi volto a guardarlo al rallentatore e come ogni volta il respiro mi si mozza in gola e il cuore perde un battito. E poi un altro. E poi un altro ancora. Mi rivolge un’espressione divertita e indica un paio di mutandine di cotone che tengo in mano e che fino a quarantacinque minuti fa erano solo bianche.
«Queste lavatrici non funzionano», dichiaro. «Fai attenzione».
Lui ride, una risata pulita e sguaiata che mi mette a disagio. Pensa che stia scherzando?
«Oh, sei seria». Soffoca con scarso successo una nuova smorfia divertita. Si morde forte l’angolo destro delle labbra, ma il sinistro continua a sollevarsi e il risultato è un mezzo sorriso sexy che mi fa avvampare. «Forse dovevi solo dividere i panni. Chiari da una parte e scuri dall’altra».
Lo guardo come se mi stesse parlando in cinese. Perché dovrei dividerli? Mia madre non lo fa mai. Lei ficca tutto nel cestello e un’ora dopo i vestiti ne escono puliti, profumati e ogni colore è rimasto al suo posto.
«Fammi vedere». Theo si sposta accanto a me, prima valuta i danni del mio bucato poi esamina la lavatrice incriminata. Quella che non funziona, per capirci. «Hai sbagliato a impostare la temperatura», dice lui indicando una manopola che non ho assolutamente toccato. «Non si lava mai niente a novanta gradi. Ci sono altre cose interessanti che si possono fare con quel numero, ma non il bucato».
Rimango immobile a fissarlo, stringo forte i denti per evitare alla mia mascella di tradirmi e rovinare a terra. «Io… Cosa?».
Theo sogghigna, scuote la testa e i muscoli sulle braccia si tendono. Non è quello che definirei “il mio tipo”, con tutti quei tatuaggi, i capelli così corti, il viso “da grande” e gli addominali che non vedo ma sono certa siano ben definiti sotto quella t-shirt, eppure non riesco a staccargli gli occhi di dosso. Theo ha il fascino del ragazzaccio. Le sue iridi sono di un azzurro talmente intenso da renderle quasi finte. I suoi tatuaggi gridano “oh, andiamo, lo so che vuoi toccarli, ragazzina” e il suo corpo… diciamo solo che Madre Natura è stata molto generosa con lui, e lasciamo cadere qui il discorso.
«Scherzo», si affretta a replicare quando si accorge della mia espressione attonita.
Forse pensa che non abbia capito la battuta o, peggio ancora, che mi sia scandalizzata, ma la verità è che ho sei cugini maschi. Sono immune a queste battute a doppio senso.
«Io sono Theo, comunque». Mi porge la mano e io rimango come una scema a fissarla.
Ma non l’avevamo già fatta questa conversazione?
«Lo so come ti chiami», ribatto di getto, pentendomene subito.
Theo raddrizza le spalle, abbassa la mano e sporge all’infuori il labbro inferiore della sua bocca da infarto.
«Ah, sì? Ti sei informata su di me?». Mi rivolge uno sguardo da latin lover incallito e, Dio mi è testimone, raggiunge il suo scopo: farmi avvampare dalla testa ai piedi e mandarmi in confusione totale.
«Ci siamo presentati tre settimane fa. Sono quella dei bagni».
Sono quella dei… BAGNI? L’ho detto davvero?
Le mie guance scottano per l’imbarazzo e infilo la testa nella cesta del bucato. Vorrei sprofondare.
Quella. Dei. Bagni.
Theo rimane in silenzio e sono costretta a riemergere dal mio inutile nascondiglio. Le sue
sopracciglia sono ancora più corrugate e le sue labbra modellate in una smorfia pensosa.
«Nei… bagni?».
Annuisco.
«Lucy?», azzarda lui, e non riesco a nascondere la delusione.
«Eva», preciso.
«Ma certo! Eva! Sei quella del dentifricio».
Adesso sì che mi sento speciale! Quale ragazza non vorrebbe essere ricordata come “quella del dentifricio”?
«In carne e ossa», borbotto.
«Quindi la tua camera è sul mio stesso piano», deduce.
«Sono la tua vicina di stanza».
Theo si gratta il mento e sembra riflettere su non so cosa. «Sei la coinquilina di Tette-Al-Vento?», mi domanda.
Un soprannome volgare come lei, penso. Le si addice. Carmen, oltre a essere una stronza megagalattica, si veste in modo provocante e del tutto fuori luogo: indossa solo dei top striminziti e talmente scollati da avere sempre il reggiseno in bella mostra. A differenza mia, che vivo e vegeto nei miei vestiti “comodi”. Vestiti che dovrò buttare nel primo cassonetto, a quanto pare.
«Già». È chiaro che uno come lui si sia accorto di una ragazza come Carmen ma non abbia notato me nemmeno di sfuggita in questi ventuno giorni.
Riporto lo sguardo sull’ammasso di cotone informe, che ora riposa in pace nella mia cesta nuova di zecca dal cartellino ancora attaccato. Sospiro e recupero tre monete da venticinque centesimi dalla tasca posteriore dei jeans.
Theo mi è alle spalle, sento i suoi occhi addosso ma non oso voltarmi. Forse mi sta controllando.
O forse si sta facendo i fatti suoi e non ti considera minimamente, Eva.
Carico l’asciugatrice dall’alto e rimango come un’ebete a fissarla.
«Devi selezionare prima la temperatura e poi premere qui». Il mio vicino di stanza, che a quanto pare discende da una lunga dinastia di lavandaie, mi indica due manopole che, maledizione, non avevo visto.
Sono senza speranze.
«Certo. Giusto», cerco di darmi un tono, ma poi esito di nuovo.
«Se devi asciugare accappatoi e lenzuola, allora ti consiglio di darci dentro, massima potenza». Ruota la manopola tutta verso sinistra. «Se invece si tratta del bucato normale, basterà la temperatura media. Così…». Involontariamente mi sfiora il braccio. Lui non ci fa neanche caso. Io?
Apnea.
Elettroencefalogramma piatto.
Soffocamento da inalazione di testosterone.
Trattengo il fiato e mi rimprovero all’infinito per il mio scarso autocontrollo.
«Grazie», dico e lo osservo con la coda dell’occhio mentre torna a fare le sue cose. Inserisce prima il detersivo e poi l’ammorbidente nelle vaschette, imposta il programma giusto e poi fa partire le sue lavatrici.
«Bene, Eva. Sto andando nella Rec Room (Recreation Room: sala ricreativa presente all’interno dei dormitori universitari). Vieni anche tu?».
«No», rispondo di getto senza nemmeno prendere in considerazione il suo invito.
«Sai, non devi rimanere qui a fissare l’asciugatrice. Lei farà il suo sporco lavoro per i prossimi quarantacinque minuti e tu non potrai impedirglielo». Mi ammalia con un altro dei suoi sorrisetti furbi e mi si blocca la saliva in gola nel misero tentativo di provare a deglutire. Istintivamente mi passo una mano sulla testa e mi sistemo la coda di cavallo. Raddrizzo anche un po’ le spalle.
Cosa cavolo mi prende? Non è da me comportarmi così di fronte a un ragazzo. Un uomo, okay, non un ragazzo, un uomo! Ma, comunque… lisciarmi i capelli, spingere all’infuori le tette e rimanere a bocca aperta senza una battuta al vetriolo pronta a salvarmi è inammissibile.
«Ho da fare», rispondo impacciata e mi prendo mentalmente a schiaffi.
«Tipo?». Theo incrocia le braccia al petto, non la smette di rivolgermi quella sua espressione da canaglia e poggia il suo fondoschiena davvero, davvero perfetto contro una delle macchine in movimento.
Il mio cervello formula un pensiero alquanto inquietante: io-lui-centrifuga-alla-massima-potenza-corpi-nudi-e-intrecciati.
«Sto leggendo», dichiaro rendendomi conto troppo tardi di non avere uno stramaledetto libro con me.
«Cosa? Di certo non le istruzioni della lavatrice», mi prende in giro lui, avvicinandosi poi di qualche passo.
«Hai mai sentito parlare di e-book?», improvviso.
«Beh, sì. Dopotutto sono stato accettato in una delle università più prestigiose del paese… anche se sto rivalutando il loro sistema di ammissione». Indica con il mento l’asciugatrice che contiene ciò che rimane dei miei vestiti. «Allora, questo libro?».
«Ecco, sto leggendo un e-book. Dal mio cellulare. Sull’app Kindle».
«Secondo me, Eva, è una scusa. Non vuoi venire con me e la cosa mi addolora». Si porta una mano al petto e finge di stritolarsi il cuore.
Gli concedo il primo sorriso da quando abbiamo iniziato a parlare.
«Ah, ma allora sei capace di sorridere». Mi fa l’occhiolino e afferra con entrambe le mani la sua cesta di plastica, bucherellata sui due lati lunghi, per poi nasconderla sotto il tavolone di legno laccato che serve per piegare i panni. «Se cambi idea, sono in fondo al corridoio con alcuni amici. Sei nuova, dovresti fare qualche amicizia giusta».
«Giusta?», domando ironica.
«Sì. Dai, sai come funziona. Se ti inserisci nel giro giusto, la vita al college diventerà molto più interessante».
«Lo terrò a mente».
«Ciao Ragazza Dentifricio», ribadisce lui, e io spalanco la bocca. Theo scoppia a ridere di fronte alla mia espressione inorridita ed esce dalla piccola lavanderia.
Maledizione!
Quarantacinque minuti dopo la mia asciugatrice ha finito e anche le sue lavatrici, ma di Theo nessuna traccia. Non perdo tempo a piegare i panni, li infilo alla rinfusa nella cesta e corro lungo il corridoio, verso gli ascensori, sperando di non essere vista da nessuno.
Sorpasso la palestra, la mensa, la sala studio e, per ultima, la Rec Room. Abbasso la testa e mi fingo molto interessata a contemplare i miei vestiti ingarbugliati alla bell’e meglio. Quando sono sana e salva nella mia stanza afferro il cellulare e digito un messaggio per mia madre.
EVA: Avresti dovuto insegnarmi a fare la lavatrice prima di spedirmi a New York!
Ma non ottengo risposta. Mi lancio sul letto e mi copro il viso con il cuscino.
Mi ha chiamata “Ragazza Dentifricio”. La mia vita sociale è ufficialmente finita!