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Data di Pubblicazione 14 Marzo 2020

Prologo
Fissai quella macchia azzurra. Sempre la stessa. Dall’alto della scogliera, sembrava uno specchio terso circondato da scogli aguzzi. L’acqua mulinava e le onde schiumavano instancabilmente. Non importava che a soffiare sul mio corpo fossero i venti caldi dell’estate, la tiepida brezza di maggio oppure il più terribile dei maestrali: erano mesi che, giorno dopo giorno, sfidavo il mare o me stesso o, semplicemente, il dolore che non riuscivo a estirpare dal mio petto. Persino l’inchiostro era sempre lì a ricordarmelo. Accarezzai il torace sfiorando con le dita i muscoli allenati e le iniziali che avevo inciso sulla pelle, che marchiavano, bruciandolo, quel randagio che avevo al posto del cuore. Strizzai gli occhi alla ricerca del buio, li riaprii e pensai solo al turchese del mare: tesi le braccia, piegai le gambe e, in un gesto atletico, più selvaggio che elegante, mi gettai nel vuoto. Non cercavo la morte, ma se fosse arrivata…
Che nessuno osi seppellirmi!
Che siano i pesci a cibarsi di me.
Fottetevi tutti e tanti saluti!
L’impatto con l’acqua fu violento; ogni volta che la sfidavo, lei rispondeva severa. Il gorgo salato e schiumoso mi risucchiò come fosse un buco nero. Gli occhi aperti potevano cogliere le ombre degli speroni che, ricoperti di ricci e alghe, minacciavano di tagliarmi la pelle. Eppure, il mio corpo solido, rigido e veloce come un proiettile, fendeva l’acqua, incurante. Risalii in superficie né vincitore né vinto, per respirare ancora. Poche bracciate ed ero di nuovo sulla terra ferma. Movimenti che avevo ripetuto centinaia di volte, gesti che, ormai, facevano parte di me come i luoghi che mi ospitavano. Mi arrampicai sulla parete rocciosa. Avviarmi sui sentieri battuti dai turisti e dalla gente del posto era fuori discussione. Per tutti, ero Lo straniero. E mi andava bene così. Non sopportavo che qualcuno mi parlasse; se avessi potuto evitare anche i loro sguardi, lo avrei fatto, ma non potevo. Riducevo i contatti al minimo indispensabile. L’unico rapporto che non riuscivo a troncare era quello con l’isola. C’era rispetto e diffidenza tra noi. Lei continuava ad abitarmi dentro e, per questo, la odiavo, rifiutavo qualsiasi sentimento positivo; tuttavia, era una battaglia persa. Mi aveva persino lasciato dei segni, la stronza. Erano lì, tutti addosso. Mani e piedi si erano fatti più ruvidi, i capelli più chiari e induriti dalla salsedine, la pelle del viso segnata dal sale, dal vento e dal sole. Perso nella sua natura selvaggia, mi sentivo libero come un animale. E, forse, tale desideravo essere. Mi incamminai per i vicoli stretti che, dal mare, conducevano al paese. Le pietre calde scottavano le piante dei piedi e lo scirocco, insistendo sul mio corpo umido, levava rapido ogni traccia d’acqua. Scorsi figure di donne anziane, il capo coperto da pesanti fazzoletti neri, ricurve su vecchi ricami e quasi confuse col granito delle facciate. Il silenzio innaturale che si respirava in quei luoghi era rotto dalla voce del vento che fischiava arrabbiato tra le case e le persone. Il saluto che le comari, da sempre, mi rivolgevano era un secco movimento della testa. Le ricambiavo allo stesso modo e, anche in quel giorno, proseguii silenzioso per la mia strada. Terminata la salita, arrivai davanti al portone di legno, ruvido e spartano, con la vernice scrostata dalla salsedine e un enorme batacchio in ferro battuto tra le assi. Era casa mia. Quanto tempo era passato? Quattro, cinque, sei mesi? Non lo ricordavo.
Spinsi il battente che si aprì con un cigolio sinistro ed entrai. L’ormai familiare profumo di roccia viva, terra umida e legno mi aprì, invadendoli, i polmoni. La temperatura fresca, dopo i quaranta gradi sotto il sole, fu come sempre un benvenuto più che gradito, la stessa accoglienza che trova un animale all’ingresso nella sua grotta. Mi tolsi il costume gettandolo da qualche parte sul pavimento. Raggiunsi la piccola veranda a strapiombo sul mare e presi a lavarmi grossolanamente con l’acqua della pompa, prima troppo bollente e poi troppo ghiacciata. Una sfregata col dannato sapone che non avevo capito se fosse per le persone, per i panni o per chissà cos’altro ed ero pronto per lei. Entrai in casa e mi cinsi la vita con un asciugamano. Inutile vestirmi. A lei, piacevo nudo. Guardai la stanza: un letto, un tavolo con quattro sedie sgangherate, due fornelli, un frigorifero, una lavatrice e un piccolo armadio con un’anta sola. L’unico elemento di modernità in quel luogo era il mio computer, sempre carico, ma inutilizzato da mesi. Come ogni giorno, lo guardai, lo superai e non ci pensai più.
Tre colpi alla porta. Abbozzai un sorriso, sghembo. Guardai il sole ancora alto e non potei fare a meno di notare che era in anticipo.
Impaziente, bambina?
Aprii la porta e lei era lì: la faccia pulita, il sorriso malizioso e quell’espressione così giovane, fiduciosa. I ricci biondi le coprivano il seno, ma io sapevo quanto era pieno, setoso, succulento. Le gambe abbronzate, tornite al punto giusto, erano scoperte per via di quei pantaloncini che spesso amava indossare. Le scarpe da tennis bianche la facevano sembrare poco più che una bambina e io ero il bastardo che, da mesi, se la scopava senza neanche ricordarne il nome. La guardai con una lunga, calda occhiata che lei ricambiò; mi feci da parte lasciando il passaggio libero e, con un gesto del capo, la invitai a entrare. Mi superò, ancheggiando con quel fare da smorfiosa che mi divertiva, un preliminare innocente di ciò che, poco innocentemente, per tutta la notte, le avrei fatto. Impossibile non fissarle il culo: lo muoveva ad arte oscillando tra ingenuità e sfacciataggine, un movimento che me lo faceva diventare duro. Parlavamo poco io e lei. Avevo capito che frequentava l’università, studiava lingue, ma il suo inglese era piuttosto scarso, cosa che, ovviamente, avevo evitato di dirle. Una donna che sa tacere è il sogno di ogni uomo, no? La raggiunsi ai piedi del letto; la sola vicinanza col mio corpo le increspò la pelle. «Hai freddo, piccola?» Sapevo che non era così. Scosse la testa e si morse il labbro: era il mio lasciapassare. Raggiunsi, con le mie, le sue labbra umide. Il primo contatto era il più difficile, quello in cui ricordi, volti, sapori e sussurri si sovrapponevano alla sconosciuta. L’abbandono sincero e genuino con cui la ragazza si offriva a me era un potente sedativo per i miei istinti più biechi. Quelli che mi istigavano a sfogare la rabbia che avevo dentro, a vomitare l’amaro che non abbandonava la mia saliva, a usare lei come la vita aveva usato me: brutalmente.
Eppure, non avevo ceduto e non lo avrei fatto. Mai.
La biondina, per mesi, mi aveva regalato il calore di un corpo nelle notti in cui, solo e incazzato col mondo, cercavo di dimenticare. Il minimo che le dovevo era quel poco di gentilezza che ancora, chissà come, mi restava. Ero sempre veloce a spogliarla; lo fui anche quella volta. Sdraiata sul letto, nuda e con gli occhi bagnati di aspettativa, era bellissima. Le divaricai le cosce. Dritto al punto. Lingua, labbra, denti… i gemiti di lei. Sapeva di sale e di femmina. Ancora una volta, ricordi. Invadenti. Dolorosi. Stavo ben attento a non chiudere mai gli occhi, a tenerli fissi su di lei in ogni modo possibile. In ogni posizione, anche la più scomoda, io dovevo vederla. Non potevo commettere l’errore di abbassare le palpebre e lasciarmi andare al buio: sarebbe stata la fine. Come quella volta che, come un idiota, mi convinsi di fare l’amore con un fantasma. Quello che tormentava le mie notti, quello che avevo tatuato sulla pelle e ancora più in fondo, quello che si era posato su un’altra croce, una più antica, ma ancora viva.
Due fantasmi. Due donne. Due croci. E, in me, soltanto cenere.
Affondai nel suo corpo, lo feci ripetutamente, guardandola negli occhi; tuttavia, il sollievo che da tempo aspettavo non arrivò. Non sarebbe mai arrivato. Il vento che entrava dalla finestra asciugò il sudore che ricopriva il mio corpo. Anche quella notte, non mi ero risparmiato. Mi voltai di fianco e la vidi che dormiva con un sorriso beato sulle labbra.
Ti è piaciuto, eh? Ti ho scopata per bene, su questo non ci sono dubbi.
Mi alzai dal letto e, con una mezza erezione che pendeva pesante sulla mia coscia, mi avviai al computer. Lo osservai circospetto per un po’. Capii che era arrivato il momento. Senza pensarci troppo, lo accesi. E, con lui, si accese anche qualcosa in me. Ricordai chi ero. Un sicario. Un senza nome. Lui. Così mi chiamavano. Dieci mail. Dieci nomi. Dieci persone da uccidere. Diedi una scorsa veloce alle foto, lessi l’identikit, le storie, gli indirizzi, le abitudini e… i compensi. Sempre a sei zeri. Era quello il prezzo del sangue. Presi i jeans dalla sedia e li infilai senza curarmi di indossare prima le mutande. Calzai gli anfibi e rimasi così, a torso nudo, a fissare il monitor e a riflettere sul mio futuro. Improvvisamente, lo schermo diventò nero; comparvero, poi, delle scritte che dapprima mi innervosirono e, subito dopo, mi strapparono un mezzo sorriso. «Testa di cazzo, finalmente ti sei deciso ad accendere quel rottame che chiami computer. Potrebbe entrarci dentro persino mia nonna. Hai finito di fare la bella sirenetta o pensi di riuscire a spaccarti il cranio su quegli scogli, prima o poi?»
Lo Scozzese.
Poteva essere solo lui. Quel figlio di puttana aveva hackerato il mio computer e tutti e due sapevamo bene che, al mondo, erano poche le persone capaci di farlo. Presi una sedia e decisi di starmene lì a subire insulti a cui non potevo rispondere. Per il momento. Incrociai le braccia al petto e, con un sorriso storto, continuai a leggere. «Ti dico io cosa farai. Lascerai la bionda in un mare di lacrime, rimetterai l’uccello nei pantaloni e porterai quel tuo culo da depresso qui a Londra.» Quel bastardo del mio ex collega mi guardava da vicino. Se solo avesse voluto, avrebbe potuto trovare il diavolo in persona. Continuai a leggere quelle parole che bucavano lo schermo e mi prendevano a calci nel sedere. «Non hai la stoffa del mercenario, fattene una ragione. Non ti capiterà per sempre di far fuori i cattivi; prima o poi, ti sporcherai le mani con il sangue di qualche innocente. È questo che vuoi? Salta il fosso e torna dalla parte dei buoni. Ho bisogno di un uomo fidato. Ho bisogno di un amico, di te. Sto formando una squadra e mi serve chi possa comandarla. Si tratta di una missione delicata. Conoscerai tutti i dettagli quando accetterai. Perché tu accetterai. Chiamami appena atterri e… un’ultima cosa, scopi come una femminuccia, provo quasi pena per la bionda.»
Figlio di puttana.
Mi guardai attorno alla ricerca delle telecamere, ma non riuscii a individuarle.
Femminuccia a me?
Gli avrei fatto ingoiare i denti. Indossai una maglietta, ficcai nello zaino le poche cose che avevo e scrissi un biglietto.
Addio.
La lasciai così, addormentata e felice, senza troppe parole, perché, a volte, quelle superflue sono più vuote del silenzio. Mi incamminai nella notte, lasciando quel luogo così come ero arrivato, col cuore pesante, ma con una nuova consapevolezza: sarebbe stato per sempre. Non esisteva caverna, specchio azzurro o riccioli biondi che potessero salvarmi. In cima alla collina, prima di scavallare il pendio, mi voltai. La luna si rifletteva sul mare e il suo riverbero illuminava la costa. Salutai l’isola. Sperai di portare con me un po’ della sua forza.

Capitolo 1
Londra era sempre la stessa. La ritrovai così come l’avevo lasciata. Inspirai forte l’aria che odorava di pioggia e camminai a passo svelto tra la gente; sotto quel cielo grigio che minacciava tempesta, mi sentii finalmente a casa. Un rumore di passi decisi alle mie spalle si fece man mano più concitato e vicino. Mi vidi affiancato da un uomo: giubbotto in pelle, occhiali da sole, un sorriso strafottente che solo a guardarlo ti veniva voglia di prenderlo a cazzotti. Anche lui non era cambiato.
«Scozzese» lo salutai guardandolo di sottecchi e continuando a camminare. «Lui» masticò tra i denti, sputando dalla bocca un’ampia voluta di fumo. Camminavamo senza meta, quasi invisibili tra la fiumana di gente che correva da ogni parte. Erano quelli i nostri incontri e, si sa, le vecchie abitudini sono dure a morire. La mia presenza a quell’appuntamento era di per sé un messaggio e il mio amico non tardò a pretenderne la sua formalizzazione. «Devo considerarlo un sì?» chiese inchiodandomi all’asfalto con uno sguardo perentorio, di chi non ammette dubbi né proroghe o giochetti. Ma io ero io, quindi…
«Consideralo un forse.»
«Niente stronzate! O sei dentro o sei fuori.»
«Non fare il coglione, non ti aspetterai che accetti la tua offerta senza nemmeno sapere di cosa tratta?»
«Veramente, sì.» Sbuffai dal naso.
«Fottuto arrogante!» Piegò l’espressione in una specie di sorriso che mi fece incazzare ancora di più; continuò a camminare. Lo seguii. Svoltò repentinamente in un vicolo secondario, semideserto. Proseguimmo per qualche minuto, in silenzio, fino a raggiungere un ampio spiazzo. Di colpo, si fermò parandosi davanti al mio viso confuso. Mi guardai attorno. I muri scalcinati e ricoperti di graffiti, l’ampia cancellata nera e il grosso edificio fatiscente alle sue spalle erano proprio ciò che ci si aspetta da un quartiere malfamato nel suburbio della city. Chiunque sarebbe scappato a gambe levate. Chiunque, tranne noi.
«Tieni!» mi lanciò delle chiavi che presi al volo.
«Cosa sono?» chiesi guardandole sospettoso.
«Apri!» indicò il cancello.
Osservai la ferraglia che tenevo in mano e poi la serratura arrugginita. Non ebbi un buon presagio; tuttavia, lo ascoltai. Una volta aperto, spinsi il battente che cigolò in maniera sinistra. Mi incamminai verso la proprietà, una fabbrica dismessa.
«Seguimi!»
Lo Scozzese mi superò. Coi suoi anfibi, iniziò a calpestare pesantemente detriti e calcinacci, producendo un trapestio talmente fastidioso che non riuscii a non chiedermi cosa diamine ci facessi lì. Il mio amico si fermò davanti a una specie di ascensore meccanico, un trabiccolo del tutto simile a una dannata trappola. Un rumore assordante di catene e ingranaggi mi allertò.
«Non penserai che io salga su quel coso?»
«Da sicario a femminuccia, quanto sei sceso in basso.» Scossi la testa. Tra noi, era sempre stato così: ci fronteggiavamo come due caproni, cercando supremazia l’uno sull’altro.
«Per te, potrei tornare alle vecchie abitudini» lo minacciai.
«Ti servo vivo: al momento, sei disoccupato e io ho un lavoro per te.» Odiavo i servizi segreti. Li odiavo con tutto me stesso. La corona, il Regno Unito, la politica, gli intrighi e noi… Carne da macello. Salii sulla pedana di legno e, osservando diffidente la carrucola che ci issava al piano superiore, attesi di scoprire la mia sorte.
Fui sorpreso nel trovare un ambiente simile a quello del piano terra, ma più curato. Ristrutturato, molto probabilmente.
Gli spazi erano quelli tipici delle fabbriche di inizio secolo. Gli alti soffitti mostravano un groviglio di scheletri metallici, capriate e travi d’acciaio. Le pareti di mattoncino rosso ospitavano ampie vetrate con la tipica intelaiatura all’inglese, a trama fitta. I vetri, alcuni sporchi, altri completamente oscurati da fogli di giornale, davano l’idea di un posto che si voleva segreto, abbandonato solo apparentemente, uno di quelli adatti a nascondere qualcuno o qualcosa.
Non parlavamo più: il mio amico era troppo concentrato nell’assicurarsi che nessuno ci avesse seguiti e io troppo intento a svelare il mistero racchiuso in quelle mura.
La lunga sala, che un tempo aveva senz’altro ospitato macchinari e operai, era ora allestita come un campo di addestramento militare. Conoscevo bene quei percorsi fatti per pompare i muscoli e svuotare la mente. Soldati. Servi dello stato. Nessuna domanda. Chiusi gli occhi e ricordai il peso di un corpo morto tra le braccia, l’odore del sangue, l’odore di lei. Il rumore di una pesante porta metallica che scorreva sul suo binario mi riportò al presente. Quello che vidi mi lasciò interdetto. Era una specie di dormitorio. Un colpo d’occhio veloce e registrai dieci brande, un tavolo, dei fuochi per cucinare. Ma che diavolo… Una piccola squadra di uomini lasciò la propria occupazione e si mise in fretta sull’attenti.
«Ho selezionato i migliori.» Guardai Lo Scozzese, ma ogni domanda si arrestò sulla piega severa della mia bocca.
«I migliori per cosa?» mi decisi a domandare.
«I migliori per te» rispose la faccia da culo.
«Spiegati meglio, i tuoi giochetti cominciano a irritarmi.»
«Una missione, dieci agenti, dieci fascicoli, una squadra: la tua. Sta a te selezionarla. Ti do due settimane per studiare il dossier e per scegliere i tuoi uomini.» Iniziavo a capire. Il bastardo aveva pensato proprio a tutto e, a giudicare dalla situazione, aveva dato per scontato che accettassi. Infilai le mani nelle tasche dei jeans. Ero incazzato, ma rassegnato. Nelle vene iniziò a scorrermi quell’adrenalina che da sempre aveva dato tono al mio essere. Era il mio mondo, inutile fingere il contrario. Scorsi con lo sguardo i soldatini, tutti uguali, che aspettavano un mio cenno; d’un tratto, i miei occhi si fissarono su una figura che, con le altre, condivideva solo l’abbigliamento. Strinsi le palpebre, furioso. Una donna. Il mio corpo diventò una lastra di ghiaccio. Che il cielo mi fulmini se dovessi permettere a un’altra donna di starmi vicina al di fuori di una scopata.
«Stai scherzando, vero?» Non ci fu bisogno di chiarire il concetto. Sapeva che quella era una bastardata.
«Non voglio femmine in mezzo alle palle» scandii ad alta voce. Che mi senta pure lei. Non aveva colpe, però si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato.
«Non fare lo stronzo, Lui.» Mi rispose con tanta di quella calma che capii subito. Non l’avrebbe mandata via.
«Beh, Scozzese… vorrei dirti che è stato un piacere, ma…» lasciai la frase in sospeso e mi voltai, pronto ad andarmene.
«Fermati!» Non era stato il comando perentorio a bloccarmi le gambe. Io non prendevo ordini da nessuno. La voce profonda, disperata eppure sfrontata che cercava la mia attenzione non era quella del mio amico, ma quella di una donna. Mi voltai lentamente. Non credevo alle mie orecchie. Come osi? Mi ritrovai, senza neanche accorgermene, a pochi centimetri dalla sua faccia. Non era bassa, nondimeno la sovrastavo di tutta la testa. Non feci niente per ridurre il suo disagio, anzi…
«Prego? Hai forse parlato senza che ti dessi il permesso? Alla scuola di Bambolina Soldato non vi insegnano a rispettare le gerarchie?»
«A voler essere precise, al momento, non mi sei niente.» Che faccia da stronza.
«Allora perché strilli come una cornacchia?» Non dava segni di irritazione; l’avevo apostrofata prima come Bambolina Soldato e, adesso, come uccellaccio, ma niente. Rimaneva impassibile.
«Sono un bravo agente e questa missione è l’occasione giusta per mettermi alla prova. Non permetterò che mi venga negata solo perché, tra le gambe, non ho l’uccello.»
Per poco non scoppiai a ridere nel sentire il modo pudico con cui tentava di imitare un linguaggio da caserma. Lo trovai divertente.
«Sei davvero volgare, Bambolina Soldato.»
«Sono l’agente Miller, non chiamarmi in quel modo.»
«Come vuoi, Bambolina» non riuscii a resistere.
Continuava a respirare rabbiosamente; se avesse continuato a riempire i polmoni di ossigeno e odio, avrebbe finito per toccarmi il petto con il suo. Perché, per quanto se lo fasciasse, per quanto provasse a nasconderlo dietro l’informe maglietta militare, quelle che vedevo erano due tette di ogni rispetto.
«Non ce la farai» cercai di scoraggiarla. Sollevò lo sguardo e lo fissò nel mio.
«Supererò ogni prova.»
«Non supererai la prima settimana.»
«Arriverò alla fine della seconda.» Era sicura di sé.
«Là fuori, il mondo è cattivo, agente Miller. Non ho voglia di salvarti il culo né, tantomeno, di raccattare il tuo cadavere per strada.» Sorrise, sfrontata.
«Magari, toccherà a me raccogliere il tuo.» Ridicola!
«Finito il periodo di addestramento, ti resterà solo l’arroganza. Non potrai fare altro che ingoiarla e tornartene a casa, umiliata.»
Dietro le sue iridi verdi si accese, minacciosa, una fiamma.
«Finito l’addestramento, sarò il tuo agente migliore e a te non resterà altro che infilarti i tuoi pregiudizi da maschilista su per il culo.» Le risatine dello scozzese mi irritarono più di quell’affronto. Nessun’altro osò mancarmi di rispetto. Il silenzio che seguì fu greve e denso di sensazioni contrastanti. La stronza mi aveva punto sull’orgoglio e, date le premesse, non sarei stato di certo io ad abbandonare il campo per primo. Ignorai la ragazza e indirizzai tutta la frustrazione al mio collega.
«Accetto!» Aspettai un cenno, ignorando quel sorriso soddisfatto. Eravamo d’accordo. Potei concentrarmi sulla donna.
«Adesso, sono il tuo comandante. È così che ti rivolgerai a me. Tieni a bada la lingua e non sottovalutarmi. Mai.»
«Sì, signore» concesse malvolentieri la stronza. Mi allontani da quel corpo irriverente; la sua vicinanza e tutta quella sfida rischiavano di farmelo diventare duro. Funzionavo così con le donne. Dovevo stare attento e non abbassare la guardia. Feci qualche passo e ne approfittai per guardarmi attorno. «E la principessa dove la facciamo dormire?» Nemmeno il tempo di pentirmi dell’ingaggio che già facevo i conti coi problemi di ordine pratico. «Non è una principessa, vivrà con voi e come voi. Nessun favoritismo.» Guardai il mio collega con la stessa apprensione con cui si fissa un pazzo.
«Hai detto voi?»
«Sì, ho detto voi. Quella è la tua branda. La vita di camerata compatterà la squadra» rispose prendendomi per il culo. Per poco non gli tirai un cazzotto. Mi allontanai per non cedere alla tentazione. Aprii con un calcio la porta che osservavo da un po’. Un bagno, due cessi e dieci docce. Si stava meglio in Afghanistan.
«Nessun favoritismo, eh?» Risi, maligno, immaginando tutte le implicazioni della vita da campo nella routine di Miller.
«Bambolina, ho paura che non ci sia l’armadietto per gli assorbenti» dissi cercando di umiliarla. Sono ancora in tempo a farti scappare via piangendo. Rimasi in attesa delle lacrime o di una scenata isterica. Avevo superato il segno. Quella battuta era troppo persino per uno stronzo come me. Ma la sua reazione non fu quella che mi aspettavo. La piega del suo sorriso mi disse che, ancora una volta, non l’avevo toccata. E me lo dimostrò.
«Non importa, ho notato che manca anche quello dei farmaci per la prostata. Sono sicura che entrambi riusciremo ad adattarci.» Un sorriso si aprì, lento, sulla mia bocca da squalo. Vuoi giocare, Bambolina? Non hai idea di quello che ti aspetta.

Capitolo 2
Mi allontanai. Meglio non rispondere alle provocazioni. Anche perché la tentazione era stata quella di dimostrarle, e non con le parole, che lì sotto funzionava tutto alla perfezione. Lo Scozzese mi seguì. Sembravamo due che si scrutano pensando di farsi la pelle. Entrai nell’ascensore. Anche lui. Silenzio. L’unico rumore era quello degli ingranaggi stridenti e dei nostri respiri concitati. Lo guardai con diffidenza e mi decisi a parlare. «Come hai potuto?» Non c’era bisogno che aggiungessi altro, lui sapeva.
«Ti servirà ad affrontare un lutto che non hai ancora elaborato.» Scattai come un pazzo. Lo afferrai per il bavero del giubbotto e lo sbattei alla parete dell’ascensore. Le tavole marce si spezzarono in più punti. «Non osare, cazzo! Non provarci neanche a fare lo strizzacervelli con me. Johanna è morta e non c’è niente da elaborare, se non la consapevolezza che non voglio mai più lavorare con una donna.»
«Là dentro è la migliore» rispose senza ribellarsi alla mia aggressione. Lo guardai dritto in faccia e capii che non mentiva. Se lo scozzese dava un giudizio su qualcuno, difficilmente si sbagliava. Ma io non la volevo in mezzo ai piedi e avrei fatto di tutto per indurla ad andarsene. Allentai la presa sbuffando come un toro. Ero fregato. Almeno fino a quando lei non avrebbe ceduto. Tornai alla fabbrica con un sacco militare che pendeva da una spalla. Conteneva le poche cose a me utili per vivere in quella fogna. Ignorai gli sguardi curiosi dei miei uomini e finsi che non esistesse quello di lei. Ma lo sentivo addosso. Con disgusto, guardai le due file di brande. Ne afferrai una e la trascinai lontana dal gruppo, in un angolo riservato adiacente alla vecchia scrivania che, per i prossimi giorni, sarebbe stata il mio ufficio. Lanciai la borsa sul materasso; quindi, con le mani ai fianchi e il petto gonfio mi dedicai al mio pubblico. «Muovete il culo e fatemi vedere di cosa siete capaci. Dividetevi per coppie e preparatevi a un combattimento sleale, di quelli dove o si vince o si muore.»
Entrai nella sala allestita a campo di addestramento e li trovai già disposti sul gigantesco tappeto di gomma verde. Erano uno di fronte all’altro. Quattro coppie. Un solo agente rimasto solo: Miller. Nessuno voleva combattere contro una donna. Era rigida, coi pugni stretti e la mascella contratta. Non preoccuparti, Bambolina: a te ci penso io. Mi rivolsi alle coppie e la ignorai deliberatamente; volevo che il suo disagio aumentasse.
«Fatevi male, ma non troppo. Un po’ di sangue non ucciderà nessuno, solo… attenzione a non rompervi qualche pezzo. Mi servite interi.» Li osservai per pochi istanti, il tempo necessario per capire che si trattava di uomini addestrati. Si fronteggiavano alla pari. Abili ad attaccare quanto a difendersi. Annuii soddisfatto. Potevano migliorare, certo, ma la preparazione era già ai massimi livelli. L’agente Miller non la smetteva di fissarmi. Percepivo l’irrequietezza che le tracimava da ogni poro del corpo. Mi voltai e la squadrai con attenzione. «Sei sicura di voler rovinare il tuo bel faccino, Bambolina Soldato?»
Se possibile, mi guardò con ancora più odio. «Non ho paura di qualche graffio né del dolore.» Stupida ragazzina orgogliosa. Allargai le braccia e le andai incontro.
«Come vuoi. A quanto pare, sono rimasto solo io. Dovrai batterti con me. Sono tutto tuo.» La schiaffeggiai con il sorriso più bastardo di cui ero capace e fu impagabile vederla, anche solo per poco, vacillare. Si sistemò sul tappeto in posizione di guardia. La situazione era quasi comica. Lei sembrava una piccola, elegante utilitaria e io l’autotreno che stava per investirla.
«Forza, Miller. Fammi vedere quanto sei brava.» Provocarla era fin troppo semplice. Avrei dovuto insegnarle ad avere autocontrollo se fossi stato un capo a cui, di lei, importava qualcosa. Invece, evitai accuratamente di aiutarla a nascondere quel tallone d’Achille che, prima o poi, le sarebbe costato caro. Mi attaccò in tutti i modi più o meno convenzionali che si apprendono in addestramento. Sapeva muoversi e aveva una discreta tecnica. I muscoli, seppur allenati, erano quelli di una donna e su di me avevano l’effetto di un fastidio trascurabile. Probabilmente, su un uomo meno dotato avrebbe potuto avere qualche probabilità, ma con me neanche mezza. La portai allo stremo delle forze. Gli altri uomini si erano radunati per guardare lo spettacolo, lo permisi soltanto perché così, per Miller, sarebbe stato ancora più avvilente. Se ne sarebbe andata via il giorno stesso, ne ero sicuro.
«Ti arrendi?»
«No!»
«Ti rendi conto che mi stai facendo il solletico, Bambolina?» Sudava e ansimava; tuttavia, non smetteva di provarci. Odiavo il senso di rispetto che mi istigava. Dovevo evitare a tutti i costi che se ne accorgesse. «Basta così, con i tuoi ansimi stai accaldando tutta la squadra, lo vedi che non riescono ad allenarsi?»
Guardavo male gli uomini che ridevano di gusto, quando la piccola stronza ne approfittò per rifilarmi una ginocchiata ben assestata sul cavallo dei pantaloni. Non era abbastanza alta da causarmi troppi danni, ma il dolore fu sufficiente a farmi imprecare come un dannato. Il combattimento si fece appena più serio, calibrai il colpo per non ucciderla e la presi in pieno volto. Il manrovescio le fece girare la testa. Restai fermo in attesa di valutare i danni… e lei mi sorrise, cazzo. I suoi denti bianchi come quelli delle bambine erano sporchi di sangue, il labbro spaccato si stava già gonfiando e lei sorrideva. Si passò la lingua sulla dentatura per ripulirla e, abbassando il viso, sputò un grumo di saliva densa e rossa sui miei anfibi. La tentazione di ridere del suo sfregio era pari a quella di colpirla ancora.
«Medicati le ferite e tornatene a casa, Miller. Questo non è il posto per te.»
«Fanculo» fu la sua risposta.
«Come vuoi.» Col minimo sforzo, in una sola mossa, l’atterrai sulla schiena e col gomito le mostrai quanto sarebbe stato facile soffocarla. Annaspava e scalciava. Sbiascicava parole incomprensibili, cercava di dire qualcosa, ma non glielo permisi. Quando vidi il suo volto farsi livido, mollai la presa e mi scostai, irritato, dal suo corpo.
«Sparisci, Miller.» Mi appoggiai sui gomiti e osservai, esasperato, il soffitto. Quella femmina impossibile fu, ancora una volta, brava ad approfittarsene. Mi saltò addosso e, per la sorpresa, crollai sulla schiena. Ma che diavolo… Stavamo forse girando un film porno in quella sala? Si muoveva come una dannata, cercava di immobilizzarmi le braccia con l’unico risultato di strusciarsi sul mio cazzo e sbattermi le tette in bocca.
«Brava, Bambolina. Me lo stai facendo venire duro come la roccia» dissi sottolineando il concetto con una mossa oscena del bacino. Si allontanò come se l’avessi ustionata. Ci guardammo in cagnesco. Entrambi ansimanti, ma per ragioni diverse. Il silenzio si fece grave, insostenibile. Distolsi lo sguardo da quello di lei e mi rivolsi al gruppo. «Lo spettacolo è finito. Andate a farvi una doccia. Riprenderemo domani.» Mi alzai da terra, determinato a ignorare quel corpicino umiliato che tremava di vergogna, rabbia e chissà cos’altro. Infastidito dai miei buoni propositi, le tesi una mano; la guardò col sospetto di chi fiuta un inganno e la colpì forte con il dorso della sua. Brava bambina, non ti fidare. Non aggiunsi nulla. Girai le spalle lasciandola completamente sola.
L’odore di sudore e polvere aveva impregnato l’ambiente. Le riserve di acqua calda erano limitate, dovevamo lavarci tutti insieme e le docce dovevano funzionare per non più di dieci minuti. Dovevo chiarire la situazione con Miller e la cosa, non so perché, mi innervosiva parecchio. Raggiunse il gruppo dopo qualche minuto. Non le diedi il tempo di riflettere né di vergognarsi. «Questo è tuo, Bambolina: indossalo se non vuoi che gli uomini sbavino sul tuo bel culetto nudo.»
«Cos’è?» sgranò gli occhi, oltraggiata dalle mie parole.
«Non lo vedi? È un costume o, se preferisci, una concessione, l’unico trattamento speciale che ti sarà accordato, Bambolina.» Prima che potessi schivarlo, mi ritrovai il costume sbattuto in faccia.
«Non ho bisogno di alcuna concessione, né da te né da nessun altro.» La sua ostinazione iniziava a seccarmi per davvero.
«Fai come ti pare.» Entrai nel vano docce con gli altri uomini e iniziai a spogliarmi. Una cascata di acqua bollente era quello che ci voleva per scrollarmi di dosso la voglia di strangolarla. Se non si fosse sbrigata a indossare quel dannato costume e a raggiungerci, peggio per lei: si sarebbe lavata con l’acqua fredda.
Appoggiai le mani alle piastrelle, chinai la testa e lasciai che il getto caldo mi scorresse lungo il collo. La tensione dei muscoli si sciolse appena, quel tanto necessario a rinvigorirmi nel corpo e nella mente. Quella sensazione di benessere, però, era destinata a durare ben poco. Improvvisi fischi, risatine sommesse e un insieme indecente di imprecazioni e battute volgari mi informarono che Miller si era decisa a entrare.
Era impossibile che uomini adulti, militari per giunta, si scaldassero come tori da monta nel vedere una ragazzina in costume da bagno. Cercai di ignorarli, ma il vociare diventava sempre più insistente. Irritato, mi voltai appena e capii. Era nuda. Quella pazza, arrogante, indisciplinata di una femmina aveva deciso di continuare a sfidarmi. Ero al culmine: le avrei fatto piangere lacrime di sangue. L’unico soffione libero era quello affianco a me. Avvicinati se hai il coraggio. Come se niente fosse, guardando dritto davanti a sé, cominciò a lavarsi. Accarezzava il suo corpo con gesti pratici, inconsapevole, forse, di quanto risultassero comunque intriganti. La visuale del suo culo suscitò l’apprezzamento della camerata: voci, fischi, gemiti. Ne avevo abbastanza. «Tutti fuori!» tuonai con rabbia. Lo scroscio dell’acqua si interruppe improvvisamente. Non ci fu bisogno di ripeterlo: ordinatamente, uscirono uno dopo l’altro. Anche Miller fece per andarsene, ma la fermai afferrandola per un gomito.
«Eh no, volevi dare spettacolo, continua pure, sarò io il tuo pubblico.» Si voltò in un tardivo gesto di pudore.
«Io non do nessuno spettacolo, voglio semplicemente lavarmi come tutti gli altri.» Mi infuriai, per le sue parole e per quella schiena candida che si schiudeva in fianchi invitanti, troppo invitanti. La aggredii senza pentimento. Le girai un braccio dietro la schiena e la spinsi con la faccia e con tutto il corpo sulle maioliche di porcellana. Pelle a pelle. Respiro contro respiro. Potevo sentire il martellare del suo cuore, la paura, lo sconcerto. Me ne cibai.
«Ma tu non sei come gli altri. Sei una donna.»
«Non sono una donna, sono un soldato.»
«E i soldati eseguono gli ordini.» Cercò di divincolarsi, ottenendo solo una maggior frizione tra i nostri corpi.
«Tu non hai idea di cosa c’è là fuori. Mi sento particolarmente gentile oggi, te lo farò capire io» sussurrai minaccioso al suo orecchio.
«Il tuo punto debole, Miller, è che non accetti di essere una donna e, se provocata su questo nervo scoperto, reagisci in modi molto stupidi. Cosa volevi dimostrare con questa pagliacciata? Che puoi stare nuda assieme a dei colleghi maschi? Che tutti siamo tenuti a rispettarti? È questo che credi? Stupida ragazzina! Tienile ben nascoste le tue cosce e quello che nascondono. Guarda come sarebbe facile fotterti qui, adesso. Guarda cosa ne ricaveresti dalla tua provocazione!» Calciandole il piede, le divaricai le gambe. Con un braccio, poi, la sollevai dal pavimento per poi posizionarla a novanta gradi. Appoggiai il mio bacino al suo culo sfacciato e finsi di penetrarla: una, due, tre… dieci volte. Lei si ribellava, ma non c’era possibilità di scampo.
«…E, una volta finito io, potrei chiamare i miei amici o dei colleghi o, addirittura, nemici. Usarti come merce di scambio. Oppure… ucciderti. Sarebbe facile come ammazzare un uccellino nel proprio nido. Ecco qual è il mondo in cui hai scelto di lavorare. Un ambiente in cui le regole, semplicemente, non esistono e gli errori si coprono col sangue. Hai ancora voglia di provocare, Miller?» La mollai all’improvviso. Nuda e senza difese mi guardava con due occhi allargati e umidi. La mia era una lezione crudele, ma necessaria.
«Il fatto che tu sia il mio comandante non ti dà il diritto di trattarmi così.» Mi avvicinai, minaccioso.
«Io non sono solo il tuo comandante; fino a quando ti ostinerai a rimanere, sarò il signore del tuo universo. Chiaro?» Deglutì.
«Chiaro?» urlai con tutto il fiato che avevo in corpo.
«Sì, signore.»
«Non ho sentito.»
«Sì, signore» digrignò i denti senza darmi la soddisfazione delle sue lacrime.
«E adesso, sparisci!» Con una fierezza che mi lasciò in apnea, indossò un telo di spugna e uscì dal bagno. Non sarebbe stato facile piegarla.