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Data di Pubblicazione 15 Giugno 2019
(data non definitiva)

ANTEFATTO
Le acque del Tamigi riposavano sotto la fitta bruma notturna.
Tutto taceva.
Anche Londra, come lui, sembrava soffocata da una notte senza luna; una di quelle che portano con sé presagi nefasti, che ti gelano il sangue: non per il freddo, è un rumore sinistro, un’ombra in lontananza.
È lei, mio dio è davvero lei.
L’ultima volta che l’aveva vista era poco più che una ragazzina. Mentre gli occhi si sforzavano di mettere a fuoco quella figura lontana, tanto sottile da sembrare un fantasma, il Grande Orologio rintoccò le tre.
Bang, bang, bang.
Aumentò il passo, le suole di cuoio battevano sul lastricato, un ritmo isterico ma deciso. Il rumore di qualcuno che insegue contro il silenzio di chi, ancora, scappa.
Fermati!
Avrebbe voluto urlare ma il silenzio, in quel luogo, era il suo unico alleato.
Sollevò l’ampio collo del cappotto che, scosso dal vento, danzava coi suoi lembi fino a frustargli le caviglie. Era vestito di nero, non poteva rischiare che qualcuno lo riconoscesse. Uno scandalo era più che sufficiente per una famiglia come la sua, non avrebbe permesso che accadesse ancora.
Strinse con le mani nervose il panno di pregiato cachemire, coprì la bocca e il naso dalle folate di vento che portavano con sé un tanfo nauseabondo di rifiuti e carcasse di ratto. L’accenno di barba grattò il tessuto che, frizionando la pelle, gli diede un piacevole, caldo conforto.
Le fronde dei platani si agitavano sempre più. Alternavano rumori di foglie secche che scricchiolano per non abbandonare il ramo, a fruscii di vento che fischia, urla e si insinua dappertutto, fino alle ossa.
La mano scivolò nella tasca destra. Il ferro, ghiacciato e rassicurante, venne impugnato dalla morsa salda ma inesperta. La nebbia, spazzata via dalle raffiche sempre più violente, aveva liberato lo specchio d’acqua che, adesso, rifletteva lo scheletro inanimato del London Eye.
In direzione di Hungerford Bridge, le cui luci erano ancora troppo lontane per rischiarare la notte, la vide ancora. Il petto vibrava a causa del cuore che pompava veloce. L’adrenalina faceva scorrere il sangue che sembrava impazzito.
Rischiava tanto.
Rischiava tutto.
Faccio ciò che devo.
È giusto così.
Le probabilità che, in quello scorcio sordido della sua città, ci fosse solo la morte ad attenderlo erano più che alte. Ma lui doveva.
Lui doveva.
Il rumore di un bidone della spazzatura che veniva rovesciato lo mise in allerta. Si tranquillizzò quando, credendo fosse un animale, osservò dietro alcuni arbusti. Quelli che arrivarono alle sue orecchie, però, non erano versi di topi ma i gemiti di una puttana che ancora lavorava.
Superò quella scena che gli dava ribrezzo e proseguì lungo il percorso.
Arrivato a uno spiazzo, più buio di quanto non fosse già stato l’intero tragitto, si fermò. Non seppe il motivo, forse era solo istinto. Raramente non lo ascoltava e, anche quella volta, non lo aveva tradito.
Un bagliore di luna, fioco come la fiammella di una candela che sta per spegnersi, illuminò i suoi occhi. Grandi, lucidi, così familiari…
«Estelle.»
La sua voce era come un ringhio. Rancore, sgomento, apprensione, amore.
Aspettò una risposta, quella voce soave e gentile, giovane e giocosa. Il suono di un’infanzia lontana. Ma a rispondergli fu un accento che, anni addietro, aveva spalancato l’inferno per lui e per la famiglia intera. I suoni morbidi di una terra che odora di sole, foreste e immenso oceano blu, avevano per lui il gusto rancido della perdita, dello scandalo, della vergogna.
«Englishman.»
Il tono strascicato e quel nomignolo derisorio, che odiava fino alla nausea, gli diedero la certezza dei suoi sospetti. Forse sarebbe morto. Il Tamigi, quella notte, non avrebbe bevuto solo il suo sangue ma anche quello di Felipe.
Strinse la pistola, era carica, pronta, come lui.
Prima che potesse estrarla dalla tasca un colpo feroce e freddo, come il calcio di un’arma brandita con mestiere, lo ferì alla nuca.
Fu un attimo.
La sua figura alta e snella, elegante anche nella disfatta, si accasciò al suolo. Il freddo del pavimento gli gelò le membra e le labbra da cui un solo suono cercava, invano, di uscire.
Estelle.
CAPITOLO 1
Era notte fonda quando il telefono risuonò nella dimora spenta.
Tutti dormivano.
Isabelle impiegò qualche istante a compiere il suo dovere. Sgusciò fuori dal letto e, prima che il terzo squillo potesse disturbare i padroni di casa, rispose trafelata.
«Casa FitzMaurice, chi parla?»
«Scusi l’ora tarda, signora. Chiamo dal consolato del Messico; ho bisogno di parlare con Mr. Alexander FitzMaurice. È in casa?»
«Il signore sta dormendo, se è urgente vado a svegliarlo immediatamente. Può rimanere in linea?»
«Non è necessario. Le raccomando solo di avvisare Mr. FitzMaurice. Deve raggiungere al più presto il consolato che si trova in 16 St. George Street. È una questione della massima urgenza.»
«Sarà fatto.»
Isabelle si congedò in fretta, cercò carta e penna e appuntò l’indirizzo prima che lo scordasse. Indossò la divisa che consisteva in un elegante tailleur pantalone, poteva scegliere fra diverse nuance dai toni scuri e sobri.
Aggiustò il collo della giacca blu e calzò velocemente i mocassini che, da tempo, sospettava essere di vero coccodrillo.
Rabbrividì.
Gli abiti che usava al lavoro dovevano costare un paio dei suoi stipendi, benché fosse pagata davvero bene.
Percorse la scala che dominava il salone centrale e l’ingresso non meno sontuoso. Le piccole luci guida erano tenui e dai toni caldi come candele, creavano lo stesso effetto che, anni addietro, l’antica dimora doveva sortire nei suoi visitatori. Isabelle lavorava da tempo presso quella nobile famiglia, ma non si era ancora abituata all’atmosfera un po’ lugubre, austera e a tratti inquietante, di quella casa. Quelle pareti sembravano parlare, sussurravano segreti e dolori che, a voce alta, nessuno osava pronunciare.
L’anziana vedova, ormai allettata, si stava lasciando morire. Aveva smesso di lottare e portava in ogni ruga del volto il lento e inesorabile infievolirsi della speranza.
Isabelle si diresse al primo piano, percorse un breve tratto di corridoio e raggiunse la stanza dell’affascinante figlio della vedova: Alexander. Così le aveva permesso di chiamarlo dopo quello che, lui, aveva ritenuto essere il tempo utile ad accorciare le distanze e avere un rapporto meno formale.
Otto anni.
Scosse la testa al solo ricordo.
Lei proveniva da una famiglia di origine messicana, emigrata negli Stati Uniti clandestinamente e successivamente stanziatasi nel Bronx. E se si trovava in Inghilterra era solo per guadagnarsi da vivere. Roba da far accapponare la pelle a un vero britannico dal sangue blu. E invece eccola ancora lì. L’avevano accolta e trattata sempre con la massima, glaciale cortesia. Le avevano insegnato un sacco di cose e lei, dopo tanti anni, si era persino affezionata all’anziana signora.
Con Alexander era stata tutta un’altra faccenda. Aveva impiegato più di un anno per riuscire a non arrossire quando le rivolgeva la parola. A non sentirsi grossolana e inadeguata a confronto con i suoi modi sofisticati e naturalmente eleganti. Ora la faceva sorridere ammettere con se stessa che all’epoca ne fu quasi innamorata. Lentamente, però, l’infatuazione per quell’uomo dalla bellezza sfregiata, quasi decadente, dai modi raffinati e impeccabili tanto da risultare impersonali, svanì in favore di un sentimento più malinconico: era come vedere in un fratello maggiore tutto il dolore che si ostinava a nascondere.
Negli anni il rispetto si trasformò in complicità e, ad oggi, era certa di essere una delle poche persone di cui si fidava davvero.
Bussò una sola volta e, senza attendere il permesso, entrò nella stanza buia.
«Alexander» lo chiamò piano, superando appena l’uscio.
L’abat-jour si accese immediatamente, riempiendo di una luce fioca e ovattata l’ampia stanza che, a causa dei tendaggi scuri, sembrò tardare a uscire dall’ombra.
Isabelle osservò il corpo maschio che, nonostante la mole considerevole, si liberava con agilità dalle coltri di seta.
«Cosa succede?»
La voce baritonale, ruvida per il sonno bruscamente interrotto e lievemente allarmata, saturò la stanza.
Isabelle deglutì a vuoto, Alexander, ad eccezione di un morbido pantalone di raso che lambiva le muscolose creste iliache, era completamente nudo. Abbassò lo sguardo mentre le si avvicinava a passo lento. La sua infatuazione era morta e sepolta ma l’odore di lui, la presenza virile e il fatto che si trovasse da sola, di notte, nella sua stanza, la misero in imbarazzo.
Ritrovò il suo aplomb e riportò lo sguardo su di lui.
«Hanno chiamato dall’ambasciata messicana, l’aspettano al più presto per discutere di una faccenda della massima urgenza.»
L’espressione assonnata di Alexander divenne vigile. Gli occhi preoccupati e la mascella contratta. Passò una mano nervosa tra i capelli folti e la cicatrice, illuminata appena, sembrò tirare in modo sinistro come quando si parlava di lei.
Alexander si voltò, raggiunse il comodino e afferrò il cellulare, lo accese e i bip dei numerosi messaggi in entrata gli causarono un gemito roco di frustrazione.
«Vorrei mangiare qualcosa di leggero. Sarò pronto tra dieci minuti.»
Isabelle sapeva bene che quello era il suo modo cortese per mandarla via.
Immediatamente.
«Sì, me ne occuperò personalmente.»
«Grazie. Ehm… Isabelle?»
La sua voce era sempre più nervosa.
«Sì?»
«Non dire niente a mia madre.»
«Non si preoccupi.»
L’uomo, di profilo, la congedò con un elegante inchino, nobile quanto la stirpe che gli diede i natali.
Le mani appoggiate alle piastrelle, le braccia tese e la testa china. Alexander lasciò che il massaggio dell’acqua bollente distendesse i muscoli tesi. I capelli gli coprivano parte del volto, inzuppati, grondavano acqua sugli occhi serrati; l’espressione attonita, simile a una maschera, faceva dello sfregio un torrente ripido che, attraversando il suo viso, trovava la morte nella bocca distorta.
Il respiro lento, riempiva e svuotava la cassa toracica che, ampia e forte, sembrava tendersi fino allo spasmo.
Il suo inarrestabile contegno rischiava di crollare, ma non avrebbe offerto al mondo quello spettacolo, avrebbe tenuto per sé il tumulto di quei sentimenti e il riemergere sordo delle sue ferite.
Uscì dalla doccia e indossò l’accappatoio. Strinse la cintura in vita e si portò davanti allo specchio. L’immagine riflessa era deformata dall’umidità, pensò che non fosse dissimile da quella reale. Con una mano pulì lo specchio e sorrise cinico al suo doppio, contornò con un pollice l’intera cicatrice e come ogni volta che lo faceva ricordò quella notte, il dolore e l’odore del sangue. Qualcosa di terribile stava per abbattersi, ancora una volta, sulla sua famiglia ma lui era pronto.
Questa volta non avrebbe fallito.
Salì in macchina e diede l’indirizzo all’autista che lo aspettava col motore già caldo. Si accomodò in una posa fintamente rilassata nel sedile posteriore e, con sguardo preoccupato, vagò tra le luci di Londra, la sua città che, in quella stessa oscurità, lo aveva tradito e mutilato.
Sapeva che si trattava di lei.
Cosa doveva aspettarsi?
Avrebbe incontrato un fantasma, un ricordo sbiadito o un cadavere?
Serrò i pugni davanti a quella macabra ipotesi.
Pochi minuti e lo avrebbe scoperto.