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Data di Pubblicazione 14 Dicembre 2020
Prologo
Edoardo sentì con chiarezza il fischio dell’arbitro. Superò le urla dei tifosi, lo stridio delle scarpe da ginnastica sul pavimento di legno, i tonfi pesanti del suo stesso cuore. Risuonò nelle sue orecchie con la forza di un terremoto che scuote la terra e rende instabili. E lui era caduto, se ne rendeva conto. Era tutto sbagliato nella sua posizione. Cristo, sfiorava i due metri d’altezza. Cosa cazzo ci faceva ai piedi dell’avversario?
La realizzazione arrivò con un urlo che gli ghiacciò il sangue nelle vene, il suo stesso urlo. Produceva un suono disperato, disumano, che non avrebbe mai dimenticato. Perché nel momento in cui la gola iniziò a bruciare, la gamba destra decise di esplodere.
Una curiosità atavica lo spingeva a controllare che fosse ancora attaccata all’anca, che le ossa fossero ancora circondate da muscoli e pelle, ma erano altre le immagini che gli scorrevano davanti agli occhi.
Strano come un infortunio assomigliasse alla morte.
Si diceva che nel momento in cui si stava per salutare la vita, il cervello mandasse in loop tutti i fottutissimi ricordi accumulati quando ci si credeva invincibili, immortali.
Edoardo, però, non vide il passato.
Vide il futuro.
Vide ciò che non avrebbe più potuto fare.
Non ci sarebbero stati altri allenamenti, non ci sarebbe stata la squadra né le domeniche cariche di sfide e di tensioni.
Correre, scartare, saltare… Non avrebbe più provato l’estatica sensazione di staccare i piedi da terra e volare come Icaro verso il suo personale sole: il canestro. Un cerchio di ferro che era da sempre il suo migliore amico e il suo peggior nemico, un anello che lo aveva vincolato più di una fede all’anulare.
Non ci sarebbe stato il “per sempre”, nessuna separazione consensuale, ma un abbandono che l’avrebbe logorato, avrebbe scavato in lui un cratere in cui sarebbero affogati la voglia di vivere, ogni speranza, ogni sogno.
Era la fine.
Lo sapeva con certezza, e non perché ora riusciva a sentire le indicazioni dei paramedici, le urla disperate di sua sorella a bordo campo e i tentativi dell’arbitro di allontanare i compagni.
Lo sapeva perché della gamba non gliene fregava più niente, nemmeno la sentiva; il dolore si era spostato, si era concentrato nel suo petto, pervadeva quel muscolo voluminoso che ancora si contraeva per pompare sangue nelle vene, ma che non sentiva più battere.
Una partita in cui non ci sono né vincitori né vinti, ma sentimenti che si fanno strada tra la rabbia, il dolore e l’accettazione al fine di conquistare il punto decisivo, quello dell’amore.
Tiziana Matarrese – Vanitiromance