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Data di Pubblicazione 11 Novembre 2021
Prologo
Afferro lo zaino appena esce dal controllo bagagli e me lo piazzo sulla spalla. L’addetta alla sicurezza mi lancia un’occhiata curiosa e posso anche capirla: sono un disastro.
Ho evitato con cura di guardarmi allo specchio prima di uscire di casa, ma dopo la notte appena trascorsa so di non avere un bell’aspetto.
La signorina dal tailleur scuro mi porge i documenti insieme al passaporto e accenna un sorriso. Chino la testa e mi lascio sfuggire un “grazie” che suona più arrochito del previsto.
Sono uno straccio.
Uno straccio nel peggior senso del termine, consumato da una nottata di bagordi e fiumi d’alcol.
E io non bevo, di solito.
Ingoio quel poco di saliva che ho ancora in bocca e mi avvio verso gli imbarchi. Ho già salutato chi dovevo, eppure continuo a voltarmi indietro come se qualcuno potesse apparire all’improvviso. So che non succederà mai, però continuo a sperarci lo stesso.
«Mi dispiace.»
Chiara non ha avuto nemmeno il coraggio di guardarmi negli occhi mentre lo diceva. “Mi dispiace”, solo un maledetto “mi dispiace” e tre anni di noi sono stati cancellati come se non fossero mai esistiti.
Mi sale la nausea al solo pensiero, o forse sono le birre e la vodka che ho buttato giù dopo averle parlato e che ora cercano di tornare a galla.
Nella mia testa continuo a rivivere quei dieci minuti in continuazione.
E ogni volta fa più male.
Di un’intera notte, ricordo solo questo, il mio cervello ha selezionato e memorizzato pochi frammenti dolorosi e tutto il resto è una nube confusa.
Non riesco proprio a darmi pace.
A lei dispiace.
Faccio una smorfia. E cosa, esattamente?
Di avermi mollato dall’oggi al domani?
Di aver rovinato la festa d’addio che i miei compagni di squadra stavano organizzando da mesi?
Serro le dita intorno allo spallaccio dello zaino e inspiro. Devo reprimere i conati che mi invadono la gola o vomiterò all’istante, lungo il corridoio dei duty-free delle partenze internazionali.
Cammino e rimugino, rimugino e cammino.
Non lo so.
Non so davvero cosa pensare.
Non si lascia una persona che si dice di amare senza una spiegazione; anzi no, mi correggo, la spiegazione c’è ma forse sono io troppo stupido per capirla.
Rivedo la sua espressione mortificata, le sue dita che tormentano i capelli mentre continua a sparare cazzate.
«Non ci riesco, davvero, Nico, mi dispiace.»
Quelle due parole. Quel “mi dispiace” che non avrei mai immaginato di sentire.
Non da lei.
Deglutisco di nuovo come se non sapessi fare altro per continuare a respirare.
Io, al posto suo, non l’avrei mai lasciata.
Io ci avrei provato. Perché io l’amavo davvero. Io la amavo e l’avrei aspettata: sempre.