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Data di Pubblicazione 21 Luglio 2020
Erika Vanzin
Nata a Valdobiadene (Treviso) nel 1979. Scrive romanzi rosa e new adult. Risiede a Seattle (USA) dopo aver vissuto in diverse città del mondo, tra cui Londra. Nel 2014 ha frequentato la Scuola di sceneggiatura di James Franco a Los Angeles.
Estratto dal primo capitolo
Salgo sul taxi facendo fatica a centrare la porta, visto quanto alcol ho in corpo. Ho la netta impressione che sia stata una pessima idea, lasciare il party organizzato dalla casa discografica, prendendo un taxi nel bel mezzo di Los Angeles. Biascico l’indirizzo al taxista che mi guarda con l’aria preoccupata di qualcuno che ha paura di ritrovarsi a dover ripulire il retro della sua auto dal vomito di un estraneo. Mi appoggio con la testa al vetro del finestrino e guardo fuori le luci della città scorrere sotto i miei occhi. Mi manca New York, i suoi palazzi alti che ti racchiudono passandoci in mezzo, come a proteggerti.
È questa differenza con Los Angeles che mi rende l’ambiente poco familiare. Questa città, a parte il cuore della downtown, è una lunga distesa di case basse e capannoni commerciali appena poco più ingombranti. Quartiere dopo quartiere ti sembra di essere nudo mentre cammini lungo le strade larghe fiancheggiate da palme alte e strette. A Manhattan i palazzi ti fanno sentire microscopico, pare che le strade siano chiuse in un tunnel, e che siano lì a proteggerti dal mondo mentre cammini per andare al lavoro. È una sensazione allo stesso tempo sovrastante e rassicurante. Uno dei tanti paradossi di quella città.
Devo essermi addormentato, ad un certo punto del tragitto, perché mi sembrano passati solo alcuni secondi quando il conducente infila una mano nella piccola finestrella ricavata dal divisorio che ci separa e mi scuote per una gamba per richiamare la mia attenzione. Gli lascio diverse banconote che pesco dai pantaloni e, quando lo vedo sgranare gli occhi dalla sorpresa, gli faccio cenno con la mano di tenersi pure il resto. Non se lo fa ripetere due volte, infila i soldi in tasca e mi esorta a scendere.
È solo in questo momento che realizzo il primo errore che ho fatto, guardando fuori dal finestrino: non ho chiamato Max, il nostro autista. Una schiera di fan è appostata sotto al nostro albergo da due giorni, se ci fosse stato lui avrebbe avuto l’accesso al garage sotterraneo, invece il taxista mi ha consegnato direttamente di fronte alla vasca degli squali.
«Porca puttana! I paparazzi ci andranno a nozze anche stavolta.»
Ho smesso di contare quante volte sono finito sui giornali questo mese, ma non è colpa mia se a quelle maledette feste ti mettono in mano costantemente un bicchiere di vino francese che costa più di una macchina.
«Non è che per caso puoi portarmi al garage sotterraneo, vero?» Domando al taxista pregando come una ragazzina che vuole tirare sul coprifuoco del sabato sera.
L’uomo mi guarda e mi fa cenno ancora di scendere, più spazientito della prima volta. Faccio un sospiro profondo, mi tengo alla maniglia della macchina e mi aggrappo al montante per trascinarmi fuori. Cerco di chiudere la porta con più grazia possibile, poi abbasso la testa e lascio che i miei lunghi capelli scuri coprano la faccia. Uno, due, non arrivo nemmeno a contare fino a tre che le ragazze cominciano a urlare e i paparazzi a scattare foto a ripetizione. Due fottutissimi passi barcollanti e la mia copertura è già saltata. Non che ne avessi una, visto che sono il cantante, leader della band più famosa al mondo, per lo meno in questo momento; sono alto quasi due metri e sono largo quanto un armadio, però avevo davvero sperato fino all’ultimo che potesse funzionare. Maledetto alcol e le cazzate che mi fa fare.
Alzo la testa, tanto ormai non ha più senso nascondersi, e cerco di individuare la porta d’entrata che mi appare offuscata dall’alcol. Strizzo gli occhi un paio di volte ma la vista non migliora. Incespico dopo alcuni passi mi appoggio alla transenna dietro cui sostano le ragazze, una di loro mi afferra per il collo e mi attira a sé in un groviglio confuso di braccia e capelli. Le loro grida mi fanno quasi scoppiare la testa, mi appoggio al metallo freddo della transenna e cerco di allontanarmi, ma una seconda ragazza mi agguanta questa volta infilandomi la lingua in bocca senza troppe cerimonie. La spingo via con più delicatezza possibile, cercando di afferrarla nella “zona sicura” sulla parte alta delle braccia, ma altre due mi baciano sulle labbra prima che uno degli addetti alla sicurezza dell’albergo venga ad aiutarmi a districarmi da questo caos in cui mi sono infilato. Ogni volta io divento il bersaglio a cui saltare addosso, quello a cui infilare la lingua in bocca per poter spuntare dalla lista “baciare la rockstar”. Non Damian Jones come persona, ma il personaggio famoso di turno, non importa quale sia il suo nome. Così mi ritrovo le labbra appiccicaticce per via di qualche rossetto che fatico a togliere con il sapone e nemmeno una conversazione di circostanza per sapere come sto, o come è andata la mia giornata.
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